Ancora su art. 12, 12 bis e art.14: un’opinione

Premessa: nel blog sono ospitati contributi, come questo, che non rappresentano la posizione di Federsolidarietà Confcooperative, ma che si ritengono utili per alimentare e sviluppare la discussione. Si pubblica qui la seconda parte di un intervento di Gianfranco Marocchi, che a partire da un precedente post (“recinti e pecore”) sviluppa il tema degli inserimenti attraverso gli articoli 12 e 12bis della legge 68/1999 e dell’art. 14 del D.Lgs 276/2003

A pagina 106 della relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 68/1999 si trova il numero di persone con disabilità avviate al lavoro tramite convenzione art. 12 (quello vecchio, sono dati 2007 e quindi anteriori al 12 bis che risale a dicembre di quell’anno) e articolo 14. Poniamo pure che il 12 bis abbia avuto un successo (?) paragonabile all’articolo 14. Dopo circa un decennio dalla loro introduzione, queste normative nella migliore delle ipotesi hanno riguardato forse l’1% delle persone svantaggiate inserite in  cooperativa sociale. Scontiamo le percentuali sui disabili in cerca di occupazione – quindi l’impatto effettivo degli strumenti in questione rispetto all’entità del problema su cui si propongono di intervenire – perchè il numero di zeri da mettere dopo la virgola diventa imbarazzante.

Certo va tributato ogni rispetto a chi, con lodevoli sforzi concertativi (probabilmente non senza un notevole mal di fegato nel convincere gli interlocutori di non essere in nessun senso malintenzionato), è riuscito a costruire le condizioni per creare qualche decina di opportunità occupazionali per persone con disabilità attraverso queste convenzioni. Anche un solo posto di lavoro è cosa massimamente degna. Ma così non va. O c’è un cambio di marcia o è meglio lasciar stare.

Già si è argomentato che recinti, deresponsabilizzazione delle imprese, cooperative sociali che assorbono tutta l’esclusione lavorativa, ecc. sono favole diffuse per ignoranza dei numeri o per interesse. I complessi e inevitabilmente macchinosi sistemi di “precauzioni” che caratterizzano questi strumenti riparano da rischi inesistenti. A questo punto delle due l’una: se si valuta – cooperative, sindacati, politica, associazioni di disabili – questo genere di strumenti potenzialmente interessanti, deregoliamoli per 5 anni. Completamente. No limiti di quote di copertura, no limiti su grado di disabilità, no limiti temporali, ecc. Dopo 5 anni, numeri alla mano, si potranno valutare i pro e i contro ed eventualmente apportare correttivi laddove dovessero insorgere distorsioni. Se invece i nostri interlocutori non sono convinti, se sindacati e diretti interessati – le associazioni di disabili – vedono in tutto ciò rischi persistenti, lasciamo stare. Serenamente. Se siamo noi gli unici a crederci, non ne vale la pena. Quasi che la cooperazione avesse, per caparbietà ideologica, un qualche interesse nel forzare l’introduzione di uno strumento che – non sappiamo se per limiti intrinseci o per la diffidenza da cui è circondato – non convince i nostri stakeholder e presenta i dati numerici sopra richiamati. Non spendiamo più lì energie (già ne abbiamo dedicate abbastanza rispetto ai risultati sopra esposti, non è probabilmente la battaglia prioritaria su cui giocare il nostro credito presso le istituzioni) e dedichiamoci a sviluppare le azioni grazie a cui inseriamo il 99% delle persone svantaggiate che lavorano presso le nostre cooperative.

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